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«E laggiù, all’estero, c’è forse più giustizia che qui?»

«Non saprei. Della nostra giustizia non ho sentito che lodi. Noi, per esempio, non abbiamo la pena di morte».

«All’estero sì?»

«Sì, in Francia, a Lione, ho assistito a un’esecuzione capitale. Ci andai con Schneider».

«Impiccano?»

«No, tagliano la testa».

«E il condannato grida?»

«Eh no, non fa in tempo, è un attimo. Lo mettono al suo posto, sul ceppo, e dall’alto gli arriva sul collo una lama pesante. Si chiama ghigliottina. Cade con violenza e tronca la testa in un batter d’occhio. I preparativi, quelli sì che sono penosi. Quando si legge al condannato la sentenza, quando poi lo vestono, gli radono i capelli, lo legano, lo portano sul patibolo… allora, sebbene molti lo disapprovino, per vedere quello che succede si raduna una gran folla, vengono perfino le donne».

«Non è uno spettacolo per loro».

«Si capisce, una tortura infernale. Il condannato, quella volta a Lione, era un uomo intelligente, robusto, coraggioso, di mezza età. Si chiamava Legros. Ebbene, lo credereste? Salito sul patibolo si fece bianco come la carta, piangeva. Un orrore, una cosa indescrivibile! E si può forse piangere di spavento? Un uomo, vi dico, non un ragazzo: un uomo di quarantacinque anni. Che prova l’anima in quel momento? Da quali convulsioni è dilaniata? Perché, vedete, è proprio l’anima che si manda a morte. Non uccidere, è detto nei comandamenti. E perché, dunque, per punire un uomo di avere ucciso, lo uccidono? No, no, è un’infamia. È passato già un mese da quando vi ho assistito e ho quella scena sempre davanti agli occhi e, per almeno cinque volte, quell’uomo me lo sono persino sognato».

Il principe si scaldava e, sebbene non alzasse la voce, vampate di calore gli arrossavano le guance. Il cameriere, non meno impressionabile del principe, ascoltava intento.

«Di buono», notò, «è che, con questo sistema, non si soffre a lungo quando la testa viene tagliata».

«Lo dicono tutti. E la ghigliottina, d’altra parte, è stata inventata proprio per questo. A me, però, durante l’esecuzione venne un sospetto: e se fosse proprio questo il colmo della sofferenza? Potrà sembrarvi strano, vi farà ridere, eppure… prendiamo, per esempio, la tortura: strazio, piaghe, scricchiolio di ossa, dolore materiale insomma, un dolore che distrae la vittima dalle sofferenze morali fino all’arrivo della morte. Ma il dolore principale, il più forte, non è quello delle ferite; è invece la certezza, che fra un’ora, poi fra dieci minuti, poi fra mezzo minuto, poi ora, subito, l’anima si staccherà dal corpo, e che tu, uomo, cesserai irrevocabilmente di essere un uomo. Questa certezza è spaventosa. Tu metti la testa sotto la mannaia, senti strisciare il ferro, e quel quarto di secondo è più atroce di qualunque agonia. Questa non è una mia fantasia; ce ne sono moltissimi che la pensano come me. E ve ne dico anche un’altra. Uccidere chi ha ucciso è, secondo me, un castigo non proporzionato al delitto. L’assassinio legale è assai più spaventoso di quello perpetrato da un brigante. La vittima del brigante è assalita di notte, in un bosco, con questa o quell’arma; e spera sempre, fino all’ultimo, di potersi salvare. Ci sono stati casi in cui l’assalito, anche con la gola tagliata, è riuscito a fuggire, e casi in cui l’assalito, supplicando, ha ottenuto la grazia dei suoi assalitori. Ma con la legalità, quest’ultima speranza, la speranza che attenua lo spavento della morte, vi viene tolta con una certezza matematica, spietata. Attaccate un soldato alla bocca di un cannone e accostatevi con la miccia: chi sa! Penserà il disgraziato, tutto è possibile… Ma leggetegli la sentenza di morte e lo vedrete piangere o impazzire. Chi ha mai detto che la natura umana può sopportare un colpo simile senza impazzire? E allora, a cosa può mai essere utile una pena così mostruosa? C’è solo un uomo che potrebbe chiarire questo punto; un uomo a cui abbiano letto la sentenza di morte e poi detto: “Va’, ti è fatta la grazia!”. Di un simile strazio ha parlato anche Cristo… No, no, la pena di morte è inumana, è selvaggia e non può né deve essere lecito applicarla all’uomo»

da "L'idiota", di Fëdor Dostoevskij

ENZO CARPENTIERI
architect  
 

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